• Metodo Kabat
  • Metodo Perfetti
  • Metodo Bobath
  • Riabilitazione Posturale Mézière
  • Linfodrenaggio Vodder
  • Taping Neuromuscolare
  • Pompages

METODO KABAT[1].

Indicazioni: Il Kabat è nato e si è sviluppato nell’ambito della neuroriabilitazione, ma le sue tecniche sono altamente indicate anche per la riabilitazione ortopedica. L’utilizzo di questa metodica è ottimale per  il rinforzo e per gli allungamenti muscolari, per l’aumento dell’ampiezza del range articolare, per  la riduzione della rigidità e della spasticità, per la  coordinazione e l’equilibrio.

Il metodo Kabat nasce in California nel 1948 nel Kaiser Rehabilitation Center di Vallejo dalla collaborazione tra il neurologo Herman Kabat e la fisioterapista Margaret Knott, per trattare pazienti affetti da patologie neurologiche. Attualmente questo metodo viene utilizzato largamente in Europa e nelle due Americhe. I francesi lo chiamano metodo di Kabat, gli anglosassoni PNF ovvero proprioceptive neuromuscolar facilitation. In Italia viene utilizzata una variante che si chiama RMP con Facilitazioni Neurocinetiche-Concetto Kabat di Giuseppe Monari dove RMP sta per Riequilibrio Modulare Progressivo .

Kabat riteneva fondamentale che le conoscenze scientifiche acquisite mediante la ricerca di base venissero utilizzate nella pratica clinica. Il suo metodo è stato il frutto di questa impostazione di pensiero, quindi nasce  proprio sulla base dell’integrazione delle conoscenze neurofisiologiche con la pratica clinica, dell’approccio medico neurologico con quello fisioterapico riabilitativo. Questi connubi hanno portato allo sviluppo di diverse tecniche, che nel loro complesso vanno a costituire il metodo. L’utilizzo di queste tecniche è finalizzato al rinforzo muscolare, all’aumento del range articolare, alla riduzione della rigidità e della spasticità,  al miglioramento della coordinazione e dell’equilibrio.

Noel-Ducret suggerisce come miglior definizione sintetica di questo metodo una frase estrapolata da un articolo di Viel E.[2] : “Utilizzazione delle informazioni di origine superficiale (tattili) e di origine profonda (posizione articolare, stiramento dei tendini e dei muscoli) per l’eccitazione del sistema nervoso, che a sua volta fa  agire la…muscolatura”. Ora vediamo di entrare più nello specifico per farci un’idea più concreta del metodo.

Il fisioterapista somministra al paziente degli stimoli precisi, controllandone intensità durata frequenza e localizzazione a seconda dello scopo, per facilitare la realizzazione di uno specifico atto motorio. Questi stimoli, chiamati in gergo FACILITAZIONI, forniscono informazioni sensitive che aiutano il sistema nervoso centrale a pianificare ed effettuare al meglio il movimento. Per il SNC l’informazione fondamentale a questo scopo è quella che viene chiamata propriocezione . Si tratta della capacità di percepire la posizione del proprio corpo nello spazio anche senza il supporto della vista. I recettori che contribuiscono alla propriocezione e che vengono chiamati in causa dagli stimoli di facilitazione somministrati dal fisioterapista sono:

  • I  recettori muscolari: gli organi tendinei del Golgi che si trovano nelle giunture muscolo-tendinee e che sono sensibili allo stiramento dei tendini, sia dovuto ad una mobilizzazione passiva  che ad una contrazione muscolare. I fusi neuromuscolari, sensibili allo stiramento del muscolo sia statico che dinamico.
  • I recettori articolari, presenti nelle capsule articolari o nei legamenti, che comunicano il grado di angolazione in cui si trovano tra loro i diversi distretti corporei in un determinato momento.
  • I recettori cutanei, sensibili al tatto e a qualsiasi deformazione della cute.

Questi recettori vengono stimolati:

  • Direttamente dal contatto delle mani del fisioterapista sulla pelle del paziente
  • Mediante la coaptazione (che vuol dire stimolare un’articolazione in compressione), estremamente utile per indurre una stabilità dell’arto.
  • Con l’applicazione  di una resistenza al movimento (la posizione delle mani del terapista è fondamentale, in quanto costituisce una vera e propria guida alla direzione del movimento, che si svolgerà nella direzione opposta a quella della resistenza applicata). La resistenza stimola il reclutamento di un maggior numero di unità motorie nel muscolo.
  • Con la somministrazione dello stimolo di stiramento, che provoca una breve contrazione muscolare riflessa. Il fisioterapista chiede simultaneamente al paziente di effettuare una contrazione volontaria  in direzione opposta a quella dello stimolo di stiramento. Questa contrazione beneficerà dell’iniziale contrazione riflessa (causata dall’eccitazione del fuso neuromuscolare  dovuta allo stiramento) che funziona come facilitazione.
  • Con  stimolazioni di tipo uditive/cognitivo-verbali (“comando verbale”). Si tratta di un’indicazione sintetica della modalità in cui il paziente deve eseguire l’esercizio. Il terapista prima  spiega al paziente in modo esaustivo l’esercizio. Durante lo svolgimento utilizza poi degli specifici comandi verbali, che indicano e stimolano una specifica modalità di esecuzione: “TIENI!”, “TIRA!”, “SPINGI!”.
  • Con stimolazioni visive (il paziente deve seguire con lo sguardo il movimento che l’arto esegue nello spazio).

Le diverse tecniche proposte dal metodo Kabat  mettono a disposizione specifiche modalità di intervento da utilizzare di volta in volta a seconda delle problematiche che occorre affrontare: migliorare la coordinazione, l’equilibrio, la stabilità, la resistenza, la forza muscolare, l’ampiezza del movimento, ridurre l’ipertono.

I principi neurofisiologici su cui si basano queste tecniche sono:

  • La “legge dell’induzione successiva” di Sherrington. La contrazione di un muscolo è maggiore quando preceduta da una forte contrazione del suo antagonista, se le due contrazioni si susseguono senza intervallo di tempo. Possiamo così migliorare, ad esempio, una movimento flessorio deficitario di un arto sfruttando la forza del movimento contrario, ovvero quello estensorio.
  • L’innervazione reciproca. Esistono dei circuiti inibitori a livello midollare che fanno sì che, quando un muscolo  (agonista) si contrae, il suo antagonista si rilascia[3]. Possiamo quindi ottenere il rilasciamento di un muscolo facendo contrarre il suo antagonista. Più forte sarà la contrazione dell’antagonista, maggiore sarà il rilasciamento ! I meccanismi di inibizione permettono di ottenere un rilasciamento della spasticità e rendono più facile l’esecuzione dell’atto al soggetto.
  • Irradiazione: “I muscoli forti vengono impiegati come starters per rinforzare l’azione dei muscoli deboli. (…) un muscolo che incontra una forte resistenza irradia i suoi fratelli meno vigorosi.[4]
  • Stiramento prolungato. “Stirando un muscolo spastico in modo continuo (ma senza brutalità), si ottiene una diminuzione progressiva o una eliminazione della spasticità. Gli organi del Golgi, stimolati dalla trazione continuata, producono segnali inibitori che, accumulandosi, “deprimono” la tensione muscolare. Appena applicata la trazione, i  fusi motori (conduzione rapida) stimolano la contrazione; il mantenimento della trazione permette agli organi del Golgi (conduzione lenta) di prendere il sopravvento, e il loro messaggio inibitore vince il messaggio facilitatore che l’ha preceduto. [5]”.
  • La ripetizione del movimento. Ha come risultato, secondo Pavlov, la formazione di nuove integrazioni centrali[6] stabili (corticalizzazione).
  • Sommazione spaziale degli stimoli: l’attivazione contemporanea di più sinapsi eccitatorie su uno stesso neurone porta al raggiungimento della soglia di corrente che consente la generazione di un potenziale d’azione da parte del neurone, e quindi la propagazione dello stimolo. Dal punto di vista dell’applicazione pratica questo per noi significa che somministrare più stimoli contemporaneamente ci permette di potenziare la risposta motoria aumentando il numero di motoneuroni coinvolti. A questo dobbiamo aggiungere che l’intensità dello stimolo aumenta la riposta muscolare, quindi anche una modulazione di questa intensità rientra tra gli strumenti a nostra disposizione per affinare l’efficacia degli esercizi proposti.
  • Sommazione temporale degli stimoli: stimolazioni ripetute aumentano la risposta motoria.
  • Tipologia di contrazione. Contrazioni isometriche,  isotoniche concentriche e isotoniche eccentriche: le prime sono contrazioni senza spostamento dei capi articolari, le seconde con avvicinamento e le ultime con allontanamento dei capi articolari. Il primo caso si verifica ad esempio quando manteniamo sollevato un oggetto pesante senza muoverlo. Il secondo quando solleviamo la busta della spesa da terra, il terzo quando la riposiamo a terra. Questi tre tipi di contrazioni

Nel 1987 un fisioterapista italiano, Giuseppe Monari, dopo aver seguito un corso di PNF in California, introdusse il metodo Kabat in Italia.

L’utilizzo di questo metodo lo indusse negli anni ad introdurre  delle proprie elaborazioni che hanno portato alla realizzazione di un approccio molto più complesso ed articolato rispetto al modello originale, tanto da giustificare e rendere necessario un cambiamento di nome per distinguere quelle che sono divenute nei fatti due differenti modalità di intervento, pur nel rispetto delle formulazioni iniziali che fanno capo a Kabat ed al suo gruppo di lavoro.

Ripercorreremo qui gli steps che hanno portato all’attuale RMP-Elaborazione del Concetto Kabat  assumendo come riferimento il racconto di questa evoluzione contenuto nell’ introduzione all’edizione del 2014 di “Riequilibrio Modulare Progressivo, Elaborazione del concetto Kabat[7]” di G. Monari.

Monari ci racconta di una prima evoluzione che risale agli anni 1974-1980 in cui venne identificata l’importanza  della biarticolarità e della monoarticolarità complessa.

Un muscolo biarticolare è un muscolo che tra i suoi capi articolari comprende due articolazioni e di conseguenza la sua azione può avere effetto su entrambe. Il retto femorale ad esempio può agire come flessore dell’anca e/o come estensore di ginocchio. Lavorare in biarticolarità per il retto femorale vuol dire agire su entrambe le articolazioni e quindi suddividere il suo lavoro su entrambi i suoi capi d’inserzione in percentuale adeguata a seconda della specifica necessità dell’atto motorio che si vuole svolgere. Monari chiama questa modalità di lavoro del muscolo “funzione intelligente”.

Dovendo dividere la sua forza sia a monte che a valle rispetto alla propria lunghezza, il retto femorale costringe altri muscoli a venirgli in aiuto per svolgere al meglio entrambe le funzioni, di flessione dell’anca (chiedendo aiuto al muscolo psoas) e di estensione del ginocchio (chiedendo aiuto ai muscoli vasti) e questo coinvolgimento migliorerà nel tempo anche le prestazioni della muscolatura di supporto.

Il lavoro in biarticolarità costringe il retto a variare grandemente la propria lunghezza ed in questo modo migliora la propria elasticità. Se il retto viene esercitato separatamente soltanto come flessore d’anca o soltanto come estensore di ginocchio non è costretto a suddividere intelligentemente il proprio lavoro e questo richiede un coinvolgimento corticale (cerebrale) di livello qualitativo inferiore e determina un minore effetto di neuroplasticità. La differenza di livello di coinvolgimento corticale è stata dimostrata mediante color-doppler transcranico funzionale.  Inoltre lavorando solamente su una delle sue inserzioni non ha bisogno di particolari variazioni di lunghezza perché quella di cui ha bisogno la ottiene allungandosi a livello dell’altra inserzione. Nel lavoro in  biarticolarità il muscolo parte da un massimo accorciamento per arrivare ad un massimo allungamento.

Per monoarticolarità complessa si intende il fatto che un muscolo monoarticolare lavori simultaneamente in tutte e tre le sue funzioni: flesso-estensione, abduzione-adduzione, rotazioni. In questo modo potrà raggiungere lo stato di accorciamento massimale. Così come il lavoro in biarticolarità, anche l’utilizzo della monoarticolarità complessa comporta un maggior coinvolgimento corticale e quindi una maggior neuroplasticità.

Una seconda evoluzione del metodo avvenne poi tra il 1974 e il 1980, quando venne individuata nei passaggi posturali la chiave di lettura delle capacità di reclutamento del tronco nelle sue quattro funzioni di rotazione, flessione, estensione e inclinazioni. I passaggi posturali diventano quindi uno strumento di valutazione raffinato delle funzioni del tronco, ma vanno a costituire nel contempo anche una piattaforma di base su cui strutturare gli esercizi terapeutici da proporre per riabilitare quelle componenti del tronco che risultano deficitarie.

Tra il 1978 e il 1986 ci fu l’introduzione delle progressioni piramidali per valutare ed intervenire specificamente sui problemi di equilibrio il quale, come è noto,  è dato dal rapporto tra l’ampiezza della base d’appoggio e l’altezza dal suolo del baricentro di un corpo. Lavorare sull’equilibrio vuol dire proporre al paziente degli esercizi impostati su una variazione mirata di questi due parametri che permetta gradualmente al paziente di raggiungere la posizione eretta (dove la base d’appoggio è minima e il baricentro alla massima altezza dal suolo) avendo colmato quelle carenze che ne rendevano impossibile il raggiungimento o che lo rendevano precario. Per progressione piramidale si intendono tutta quella progressione di passaggi posturali che ci consentono di passare dalla posizione supina (massima base d’appoggio e minima altezza del baricentro) alla posizione eretta (oppure dalle posizione prona, o dalla posizione distesa in laterale). La valutazione di come il paziente affronta queste progressioni piramidali permette di intercettare il momento in cui iniziano a comparire delle carenze e quindi di individuare il livello di esercizi da proporre e consente anche di valutare se il paziente è in grado di raggiungere la posizione eretta e il cammino. Questo lavoro è stato fondamentale perché ha permesso di superare un modus operandi consolidato che era quello di esercitare direttamente la funzione carente per migliorarla: se il paziente cammina male facciamolo camminare e così esercitandolo migliorerà. Questi studi suggeriscono il fatto che probabilmente è più opportuno individuare le carenze a monte della funzione deficitaria e riabilitarle in modo specifico per  poter ristabilire appropriatamente la funzione (ad esempio il cammino).

Successivamente è stata evidenziata l’importanza dell’elasticità muscolare perché un muscolo possa esercitare al meglio il suo potere contrattile. Un muscolo che è andato incontro ad accorciamento è un muscolo che ha perso elasticità. Maggiore è la capacità di un muscolo di raggiungere il massimo allungamento e il massimo accorciamento e maggiore è la sua capacità contrattile. Inoltre un muscolo accorciato limita l’azione del suo antagonista perché agisce da freno (quando un muscolo si contrae il suo antagonista deve rilasciarsi ed allungarsi). L’accorciamento muscolare avrebbe inoltre un effetto sulla sensibilità dei fusi muscolari che aumenterebbe l’eccitabilità del riflesso di stiramento.

Da qui deriva il ruolo cardine che viene attribuito dall’RMP al raggiungimento e al  mantenimento di lunghezze muscolari fisiologiche in ogni ambito, ma in particolare in quello delle patologie neurologiche, dato che in questi pazienti se ne riscontra un’alterazione, che facilita l’instaurarsi di  schemi patologici  e può influire negativamente sul dolore alla spalla cui può spesso andare incontro in particolare il  paziente emiplegico: “..il terapeuta prima ancora di occuparsi del “rinforzo muscolare” deve preoccuparsi delle “lunghezze muscolari””. Quindi è stato approntato una modalità di valutazione delle lunghezze muscolari “reale”, che assicuri un controllo effettivo della posizione dei capi articolari durante la valutazione impedendo che si realizzino quelle vie di fuga del sistema che chiamiamo “compensi”.

Queste sono le principali innovazioni che vengono indicate nello scritto di G. Monari a cui qui faccio riferimento. Non sono le uniche ma ritengo che siano sufficienti a dare un’idea delle basi teoriche di questo metodo e delle sue potenzialità riabilitative.

Metodo Perfetti

Indicazioni: patologie neurologiche del sistema nervoso centrale e periferico che determinino una compromissione motoria o sensitiva e patologie ortopediche. L’utilizzo di questa metodica è ottimale per la riabilitazione della propriocezione e della sensibilità tattile (che risultano alterate non soltanto nelle patologie di tipo neurologico ma anche in quelle in campo ortopedico, in special modo in caso di fratture e interventi chirurgici), per la riduzione e il controllo dell’ipertono, dell’irradiazione e della reazione abnorme allo stiramento. L’integrità della propriocezione e l’adeguatezza del tono muscolare sono dei presupposti fondamentali  per lo svolgimento di movimenti fluidi e funzionali.

Propriocezione e movimento

Abbiamo detto che il metodo Perfetti è l’ideale per il recupero della propriocezione e dei deficit della sensibilità tattile. Ma che cos’è la propriocezione?

Una persona sana conosce perfettamente, senza il supporto della vista, la posizione del proprio corpo entro lo spazio percepito e la relazione  delle sue diverse parti  tra loro (tronco, testa, arti..). Se voglio prendere un bicchiere devo ovviamente vederlo, ma non devo guardare la mia mano per capire come debba muoverla e come debba  adattare la presa alla forma del bicchiere. Questa percezione del proprio corpo  prende il nome di  propriocezione. La progettazione e l’esecuzione di gesti fluidi e funzionali richiede una  propriocezione integra, che invece risulta alterata in molteplici patologie, sia a carico del sistema nervoso centrale (ictus, sclerosi multipla, atassie, malattia di Parkinson..) che periferico, ma anche in casi di fratture o interventi di impianti di protesi articolari. Il trattamento riabilitativo della propriocezione  è fondamentale per ottenere un appropriato recupero della fluidità del movimento.

I pazienti con deficit propriocettivi cercano di compensare spontaneamente  questa carenza utilizzando la vista, che nei mammiferi è un canale informativo estremamente “prepotente” rispetto agli altri sensi: guardano la mano per capire come devono muoverla verso il bicchiere, guardano il piede per capire come devono muovere il passo. In questo modo  però riducono le proprie possibilità di recupero dell’informazione propriocettiva e quindi di una mobilità più fisiologica.

Uno degli obiettivi del riabilitatore sarà quindi di “costringere” il paziente a rimettere in gioco le informazioni provenienti da quelle strutture corporee chiave per la propriocezione (muscoli, tendini, articolazioni, pelle) di cui la persona sana usufruisce in modo “automatico”, inconsapevole. Questo potrà avvenire mediante una prima fase basata sulla stimolazione e il recupero di questi canali sensoriali e, nel caso di patologie del sistema nervoso centrale, sull’acquisizione di un controllo volontario (corticale) seguita da una seconda fase di recupero del controllo automatico (sottocorticale) dell’utilizzo dell’informazione somestetica.

Alla base del metodo Perfetti ci sono tre gradi di esercizi:

Esercizi di I° grado

“Gli esercizi di primo grado hanno come scopo di permettere al paziente il raggiungimento di un soddisfacente controllo sulla reazione allo stiramento, il superamento del deficit della sensibilità tattile e cinestetica, nonché il reclutamento di un maggior numero di unità motorie. Consistono nella richiesta di attenzione nei confronti di opportune afferenze, perlopiù cinestetiche e tattili, al fine di giungere alla verifica di adeguate ipotesi percettive proposte dal terapista mediante idonei sussidi[8].”.

Durante l’esecuzione di questi esercizi il paziente deve inibire qualsiasi tipo di  contrazione volontaria e deve limitarsi ad adattare il tono muscolare dell’arto in modo tale da consentire al fisioterapista di guidarne il movimento. “In alcuni di questi esercizi, dopo aver mostrato al paziente una serie di figure, la sua mano viene guidata, inibendo ogni contrazione volontaria, a seguire i contorni delle figure stesse ad occhi chiusi ed in seguito viene chiesto al paziente  di identificare su quale figura della serie sia stato guidato il braccio[9].”. Per riuscire ad eseguire correttamente questo esercizio il paziente dovrà:

  • compiere un’ analisi visiva delle figure che gli vengono mostrate.
  • trasformare gli angoli visivi dei contorni delle figure in angoli cinestetici ovvero in un’idea/ipotesi del movimento che il suo arto dovrà compiere per seguire i diversi contorni delle figure stesse (ipotesi percettiva).
  • effettuare un’analisi dei movimenti che il fisioterapista sta facendo compiere  al suo arto (analisi cinestetica), per fargli seguire  i contorni delle figure. Questa analisi del movimento si basa esclusivamente sulle informazioni propriocettive.
  • Confrontare l’analisi cinestetica del movimento percepito mediante la propriocezione con l’idea/ipotesi di movimento che aveva realizzato in base alla visione dei contorni delle immagini (verifica dell’ipotesi percettiva).

Esercizi di 2° grado

In questi esercizi, che mirano al controllo dell’irradiazione,  “viene richiesta al paziente la verifica di ipotesi percettive che richiedano reclutamenti di sole poche unità motorie di un numero ridotto di muscoli (..)[10]”. Questo tipo di esercizi è fondamentale per portare il paziente al “controllo sulle contrazioni irradiate determinate dal movimento volontariamente eseguito[11].”. Il paziente per eseguire correttamente questo esercizio dovrà imparare a modulare il reclutamento muscolare per effettuare un’analisi cinestetica muovendo l’arto attivamente per poi poter verificare le ipotesi percettive. Negli esercizi di 1° grado questo movimento veniva guidato interamente dal fisioterapista. Negli esercizi di 2° grado in realtà il paziente esegue attivamente solo parte dell’intera traiettoria del movimento, che si svolge comunque con la facilitazione della guida manuale del terapista che deve dosare il proprio intervento valutando quanta parte del movimento lasciar compiere attivamente al paziente in base alla capacità del paziente di controllare l’irradiazione. Il terapista, oltre a calibrare la facilitazione, deve anche dosare attentamente la velocità con cui viene compiuto il movimento, tenendo presente che uno dei fattori che scatenano l’irradiazione è proprio la velocità dei movimenti. Tutti gli esercizi di primo grado possono essere trasformati in esercizi di secondo grado.

Esercizi di 3°grado

Servono ad aiutare il paziente a compiere un processo di generalizzazione delle traiettorie eseguite con gli esercizi di primo e secondo grado  per consentirgli la possibilità di esecuzione  del maggior numero di traiettorie possibili e nella maniera più funzionale possibile “utilizzando le informazioni provenienti dall’esterno e dal proprio corpo solamente per regolare spazialità, temporalità e intensità del movimento, così come fa il soggetto sano, allorché debba apprendere una nuova prestazione motoria[12].”. E’ possibile proporre al paziente questo tipo di esercizi soltanto quando egli sia arrivato a controllare in modo automatizzato (sottocorticale), attraverso gli esercizi di primo e secondo grado, l’irradiazione e la reazione allo stiramento. Il controllo automatico di questi due parametri permette infatti al paziente di concentrarsi esclusivamente sulla valutazione di eventuali discrepanze tra la traiettoria di movimento richiesta dal fisioterapista e quella che lui ha eseguito.

Controllo volontario (corticale) e controllo automatico (sottocorticale).

Negli esercizi di 1° e 2° si assiste, come abbiamo visto, ad una transizione da un controllo volontario dell’irradiazione (esercizi di 1°) e della reazione abnorme allo stiramento (esercizi di 2°)  ad un controllo automatico. In realtà anche l’apprendimento di nuove abilità motorie in condizioni fisiologiche avviene mediante una transizione da una prima fase che si svolge mediante controllo volontario (corticale) dell’esecuzione del compito motorio da apprendere ad una seconda fase in cui il controllo dell’attività che svolgiamo avviene in modo “automatizzato” (sottocorticale). Quando impariamo a portare la macchina dobbiamo porre attenzione in modo controllato a come mettere il piede per frenare, per accelerare, a quanta forza dobbiamo usare per spingere il pedale, alla direzione verso cui spostare la leva del cambio per cambiare le marce, a quanto dobbiamo girare il volante e in che sequenza precisa dobbiamo svolgere tutte queste singole azioni necessarie a portare avanti la guida. E all’inizio è difficilissimo e spesso la macchina si spegne perché  non sappiamo dosare frizione e acceleratore. Quando abbiamo terminato il processo di apprendimento tutte queste azioni le svolgiamo in automatico senza doverci porre attenzione e  possiamo chiacchierare con i passeggeri mentre pensiamo al tragitto da scegliere per arrivare alla meta desiderata.

Nella riabilitazione il rapporto tra l’informazione sottoposta ad analisi controllata e quella sottoposta ad analisi automatica è “programmato dal riabilitatore, in maniera tale da permettere un progressivo allungamento dei tratti di sequenza che possono essere attivati con un’unica presa di informazione sottoposta ad analisi di tipo controllato[13].“. In un secondo momento si può insegnare al paziente a passare autonomamente dall’analisi automatica a quella controllata durante l’esercizio, utilizzando quelli che Perfetti chiama “segnali di attenzione”. Si può trattare ad esempio di informazioni che indicano la comparsa dell’irradiazione. A titolo esemplificativo viene riportato l’esercizio in posizione seduta in cui il paziente deve estendere il ginocchio  per seguire con la pianta del piede una linea tracciata a terra. Il distacco del bordo mediale del piede da terra diventa qui “segnale di attenzione” per passare all’analisi controllata perché appunto è indice della comparsa dell’irradiazione[14].

Richiedere precocemente l’esecuzione dell’intera sequenza del passo comporterebbe un’analisi controllata di una quantità di elementi ingestibili. Occorre  effettuare un lavoro preparatorio ben strutturato prima di poter arrivare a proporre un’esecuzione così complessa. Perfetti ci suggerisce una chiave nella progettazione di questo lavoro riabilitativo  ovvero lo studio dell’ontogenesi del movimento : “(..) identificare complessi strutturati di reclutamenti che vengono utilizzati funzionalmente dal bambino in periodi ben precisi dell’evoluzione maturativa e che in periodi altrettanto precisi, in rapporto all’evoluzione cognitiva, vengono combinati tra di loro così da permettere operazioni sempre più complesse[15].”. 

La ripetizione codificante ovvero l’acquisizione stabile e duratura di nuove abilità.

Come abbiamo già detto altrove, la neuroriabilitazione si propone di indurre delle modificazioni durature del sistema nervoso centrale, cosa che in gergo chiamiamo “corticalizzazione”. Perfetti in quest’ottica parla di  “ripetizione codificante[16]”. Questa consiste nel proporre la ripetizione dell’esecuzione di uno schema, inserendo tuttavia delle “variazioni sul tema”: far percorrere ad occhi chiusi al paziente il contorno di semicerchi di raggio crescente/decrescente e chiedere di identificarli. Questo approccio, secondo Perfetti, permette al paziente di individuare e apprendere non tanto “una mossa del gioco” ma piuttosto “le regole del gioco” e farle proprie (corticalizzarle).

Nel descrivere i tre gradi di esercizi del metodo Perfetti ho fatto riferimento più volte all’ipotesi percettiva.  Vediamo ora più approfonditamente di cosa si tratta.

L’ipotesi percettiva e il movimento

Perfetti ci dice che di fronte “(..) alla necessità di soddisfare un determinato compito il sistema nervoso centrale viene obbligato a porsi determinate ipotesi percettive da verificare e a formulare una serie di operazioni concatenate tra loro in grado di condurre all’acquisizione delle informazioni necessarie per convalidare o respingere, attraverso adeguati confronti, quanto ipotizzato[17].”. Per arrivare a sollevare una borsa da terra ad esempio, dobbiamo progettare, in base ad una serie di ipotesi percettive:

il movimento di avvicinamento da compiere in base alla distanza, stimata visivamente (ipotesi percettiva), del manico della busta dalla nostra mano,

il movimento della mano per effettuare la presa in base alla forma della maniglia (ipotesi percettiva) e al suo orientamento nello spazio (ipotesi percettiva).

la forza muscolare da impiegare per sollevarla in base alla stima che facciamo sul peso della borsa (ipotesi percettiva).

Questo progetto verrà messo in atto mediante una serie di operazioni concatenate tra loro. Se durante l’esecuzione del gesto emergerà che le ipotesi percettive non sono perfettamente calzanti e che quindi il “progetto” non è perfettamente appropriato rispetto al compito da eseguire, interverranno degli opportuni “aggiustamenti” dell’atto motorio durante la sua l’esecuzione. Questo è possibile grazie ad un raffinatissimo sistema di feedback che consente al sistema nervoso centrale di conoscere in tempo reale cosa accade a livello periferico e quindi di confrontare in tempo reale il “progetto”, elaborato sulla base di un preciso obiettivo, con la sua esecuzione.

La contrazione del muscolo è soltanto l’ultimo anello di una catena di eventi che comprendono la modulazione dell’attenzione rispetto a tutta una serie di afferenze sensoriali al sistema nervoso centrale, principalmente informazioni di tipo tattile e propriocettivo, e la selezione e memorizzazione di quelle informazioni fondamentali legate a quel preciso contesto che vanno confrontate con schemi preesistenti per elaborare i parametri specifici della contrazione muscolare per quello specifico atto motorio. Risulta quindi fondamentale fin dall’inizio portare l’attenzione del paziente verso “(..) quelle strutture che permettano di programmare le caratteristiche di questo reclutamento nei confronti di un’ipotesi percettiva[18]”. In questo quadro gli esercizi di primo grado, che in un’ottica tradizionale verrebbero classificati come passivi perché non richiedono una contrazione muscolare volontaria, ma soltanto un adattamento del tono muscolare, sono in realtà esercizi attivi perché rivolti a tutta quella sfera di “azioni” che sono a monte del movimento volontario. Gli esercizi di primo grado obbligano il paziente ad effettuare un’analisi visiva delle forme e a ricavarne gli “equivalenti cinestetici” ovvero ad esempio trasformare degli angoli identificati con la vista in “angoli cinestetici” che fanno riferimento alla sensibilità propriocettiva derivante dalle informazioni provenienti dalle strutture anatomiche coinvolte nel movimento (muscoli, tendini, articolazioni, cute). Il paziente così fa un’ipotesi di cosa dovrebbe sentire/percepire nel percorrere i contorni di una figura piuttosto che di un’altra. Quando il terapista gli farà percepire il contorno delle figure per identificarle ad occhi chiusi poi, dovrà confrontare la sua ipotesi cinestetica (ipotesi percettiva) dedotta dall’analisi visiva con ciò che percepirà realmente. La presa di consapevolezza della discrepanza tra ipotesi percettiva e realtà gli permetterà di migliorare la sua capacità di analisi cinestetica.

Bobath

Mézière

Linfodrenaggio Vodder

Indicazioni. Per un quadro completo delle indicazioni relative a questo metodo rimando al sito ufficiale della Scuola Italiana di linfodrenaggio Vodder (http://www.linfodrenaggiovodder.it/metodo-originale-vodder). In questo contesto prenderò in esame soltanto le indicazioni relative a quelle patologie di interesse riabilitativo in cui questo metodo può essere utilizzato in associazione alla fisioterapia per favorire la riduzione di alcuni sintomi correlati.

  • Patologie a carico del sistema circolatorio: insufficienze venose, claudicatio intermittens, disturbi circolatori a carico del microcircolo
  • Patologie in ambito ortopedico: traumi articolari e muscolari, distorsioni, lesioni tendinee, legamentose, esiti di fratture, interventi di endoprotesi, sindrome algodistrofica di Sudek, colpi di frusta, artrosi, discopatie, lombosciatalgie, cervicalgie, sindrome da conflitto a carico dell’articolazione scapolo-omerale
  • Patologie in ambito neurologico come paresi facciale e sclerosi multipla
  • Patologie in ambito reumatologico

Il metodo Vodder è stato ideato da Emil Vodder e sua moglie Estrid Vodder, entrambi danesi, e da loro presentato ed introdotto ufficialmente per la prima volta a Parigi nel 1936.

Questo metodo prevede l’utilizzo di movimenti spirali o circolari lenti a pressione alternata che oscilla tra zero e 40 Torr e che ha un’azione sulla cute e il sottocute. Questa alternanza pressoria stimola i meccanocettori dei vasi linfatici superficiali aumentandone la motilità intrinseca di cui sono dotati, ma queste oscillazioni pressorie  hanno  anche un effetto “suzione” che favorisce lo spostamento della linfa dal liquido interstiziale ai vasi linfatici. Secondo gli studi condotti dalla Vodder Schule il trattamento con il metodo Vodder non ha soltanto  un effetto linfodrenante, che favorisce il drenaggio di liquidi e sostanze di scarto dai tessuti al sistema linfatico migliorando gli scambi metabolici, ma ha anche altri effetti importanti:

  • Simpaticolitico. Il linfodrenaggio Vodder infatti diminuisce il livello di attività del sistema nervoso simpatico (SNS). Il SNS fa parte del sistema nervoso vegetativo detto anche sistema nervoso autonomo (SNA) perchè non è sottoposto al nostro controllo volontario.  Il SNS è anche detto il sistema fight or flight perchè si attiva tipicamente per rispondere a situazione di “attacco o fuga”, quando occorre reagire prontamente ad un pericolo e affrontarlo oppure allontanarsene per tempo. Senza entrare nello specifico dell’argomento, da questa ultima definizione possiamo già comunque dedurre che l’attivazione del SNS deve avere degli effetti attivanti e non calmanti. Tra questi effetti troviamo l’aumento della frequenza cardiaca e importanti modificazioni a livello del sistema circolatorio che differiscono a seconda dei diversi distretti corporei, rilascio di cortisolo in circolo (detto anche l’ormone dello stress), aumento del tono muscolare.
  • Antidolorifico. L’attivazione dei recettori cutanei data dal massaggio inibisce, a livello del midollo spinale, la trasmissione dei segnali dolorifici al sistema nervoso centrale.
  • Immunologico. Questo effetto non ha ancora avuto ad oggi una dimostrazione scientifica ma, secondo le dichiarazioni della Vodder Schule, è  stato riscontrato un miglioramento delle difese immunitarie dei pazienti trattati che si sono dimostrati esser meno cagionevoli.
  • Di riduzione del tono muscolare. Ha quindi un’azione beneficca sulle contratture (data anche dall’effetto analgesico e dal drenaggio delle sostanze metaboliche di scarto dei muscoli tra cui l’acido lattico).

Taping NeuroMuscolare

Indicazioni: riabilitazione ortopedica postchirurgica, neuroriabilitazione di patologie a carico del sistema nervoso centrale e periferico

La metodica del Taping NeuroMuscolare (NMT Concept) “.. utilizza stimoli decompressivi e compressivi per ottenere effetti benefici sui sistemi muscoloscheletrico, vascolare, linfatico e neurologico, prefiggendosi scopi clinici e riabilitativi. Con l’applicazione di nastri si formano pliche cutanee durante il movimento corporeo che facilitano il drenaggio linfatico, favoriscono la vascolarizzazione sanguigna, riducono il dolore, migliorano il range di movimento muscoloarticolare e la postura. (…) Il taping NeuroMuscolare è una tecnica non invasiva e non farmacologica, che attraverso l’applicazione di un nastro adesivo ed elastico con particolari caratteristiche meccanoelastiche offre una stimolazione meccanica in grado di creare spazio nei tessuti; favorire il metabolismo cellulare, attivare le naturali capacità di guarigione del copro e normalizzare la propriocezione neuromuscolare[19].”.

Pompages

Si tratta di una tecnica del metodo Bienfait. Il pompage è un movimento che il terapista effettua su diversi distretti corporei per portare un segmento corporeo da uno stato di tensione ad uno stato di rilasciamento alternandoli con un ritmo regolare. Nell’applicazione della tecnica bisogna considerare tre tempi: la tensione, il mantenimento della tensione e il rilasciamento. Variando il ritmo e la tensione si possono ottenere effetti diversi. I pompages lenti ad esempio sono utili per le contratture perché inducono rilasciamento muscolare, per il trattamento delle retrazioni muscolo-fibrose ma anche per  le articolazioni (Bienfait ne suggerisce un uso sistematico nel trattamento delle artrosi)  perché ne riducono  la rigidità che  limita il movimento fisiologico. I pompages hanno anche un effetto benefico a livello circolatorio sia sanguigno che linfatico. Favoriscono l’apporto di ossigeno e nutrimento ai tessuti e l’eliminazione dei prodotti di scarto che in gergo chiamiamo cataboliti ed hanno un potente effetto antalgico.


[1]Noel-Ducret F. Metodo di Kabat. Facilitazione neuromuscolare propriocettiva. Encycl Méd Chir (Editions Scientifiques et Médicales Elsevier SAS Paris), Medicina Riabilitativa, 26-060-C-10,2001, 18 p.

E. Viel. Il metodo kabat. Facilitazione neuromuscolare propriocettiva. Editore Marrapese. 1997.

G. Monari. Riequillibrio Modulare Progressivo. Elaborazione del concetto Kabat. Edi-ermes, 2004.

[2]Viel E. Utilisation des techniques neuromuscolaires proprioceptives pour la reeducation et l’éducation du geste sportif. Schweiz Zeits Sport Medb 1985; 3:00-104

[3]

[4]E. Viel. Il metodo Kabat. Facilitazione neuromuscolare propriocettiva. Editore Marrapese. Roma. 1997

[5]E. Viel. Il metodo Kabat. Facilitazione neuromuscolare propriocettiva. Editore Marrapese. Roma. 1997. Pag. 113

[6]Ibidem

[7]G. Monari. Riequilibrio Modulare Progressivo. Elaborazione del concetto Kabat. Edi-ermes. 2013

[8]Pag 101

[9]Pag 70

[10]Pag 75

[11]Pag. 102

[12]Pag 104

[13]Pag 57

[14]Pag 58

[15]Puccini P. Perrfetti C. Lo sviluppo del sistema funzionale della manipolazione (analisi strutturale) SIMFER 12, Riassunti, 1981

[16]Pag 62

[17]Pag 44

[18]Pag 69

[19]David Blow…