Dal Metodo Kabat1 all’ R.M.P. Kabat Concept1a

Indicazioni: Il Kabat è nato e si è sviluppato nell’ambito della neuroriabilitazione, ma le sue tecniche sono altamente indicate anche per la riabilitazione ortopedica. L’utilizzo di questa metodica è ottimale per  il rinforzo e per gli allungamenti muscolari, per l’aumento dell’ampiezza del range articolare, per  la riduzione della rigidità e della spasticità, per la  coordinazione e l’equilibrio.

Il metodo Kabat è ottimale per il rinforzo e per gli allungamenti muscolari, per l’aumento dell’ampiezza del range articolare, per la riduzione della rigidità e della spasticità, per la coordinazione e l’equilibrio.

Il metodo Kabat nasce in California nel 1948 nel Kaiser Rehabilitation Center di Vallejo dalla collaborazione tra il neurologo Herman Kabat e la fisioterapista Margaret Knott, per trattare pazienti affetti da patologie neurologiche. Attualmente questo metodo viene utilizzato largamente in Europa e nelle due Americhe. I francesi lo chiamano metodo di Kabat, gli anglosassoni PNF ovvero proprioceptive neuromuscolar facilitation. In Italia viene utilizzata una variante che si chiama RMP Kabat Concept (RMP con Facilitazioni Neurocinetiche-Concetto Kabat di Giuseppe Monari dove RMP sta per Riequilibrio Modulare Progressivo), che è quella da me utilizzata.

Il dott. Kabat riteneva fondamentale che le conoscenze scientifiche acquisite mediante la ricerca di base venissero utilizzate nella pratica clinica. Il suo metodo è stato il frutto di questa impostazione di pensiero, quindi nasce  proprio sulla base dell’integrazione delle conoscenze neurofisiologiche con la pratica clinica, dell’approccio medico neurologico con quello fisioterapico riabilitativo. Questi connubi hanno portato allo sviluppo di diverse tecniche, che nel loro complesso vanno a costituire il metodo.

Il metodo Kabat nasce dall’integrazione delle conoscenze neurofisiologiche con la pratica clinica, dell’approccio medico neurologico con quello fisioterapico riabilitativo
Il metodo Kabat nasce dall’integrazione delle conoscenze neurofisiologiche con la pratica clinica, dell’approccio medico neurologico con quello fisioterapico riabilitativo

 L’utilizzo di queste tecniche è finalizzato al rinforzo muscolare, all’aumento del range articolare, alla riduzione della rigidità e della spasticità,  al miglioramento della coordinazione e dell’equilibrio.

Noel-Ducret suggerisce come miglior definizione sintetica di questo metodo una frase estrapolata da un articolo di Viel E.2 : “Utilizzazione delle informazioni di origine superficiale (tattili) e di origine profonda (posizione articolare, stiramento dei tendini e dei muscoli) per l’eccitazione del sistema nervoso, che a sua volta fa  agire la…muscolatura”. Ora vediamo di entrare più nello specifico per farci un’idea più concreta del metodo. 

Il fisioterapista somministra al paziente degli stimoli precisi, controllandone intensità durata frequenza e localizzazione a seconda dello scopo, per facilitare la realizzazione di uno specifico atto motorio. Questi stimoli, chiamati in gergo FACILITAZIONI, forniscono informazioni sensitive che aiutano il sistema nervoso centrale a pianificare ed effettuare al meglio il movimento. Per il SNC l’informazione fondamentale a questo scopo è quella che viene chiamata propriocezione . Si tratta della capacità di percepire la posizione del proprio corpo nello spazio anche senza il supporto della vista. 

PROPRIOCEZIONE: si tratta della capacità di percepire la posizione del proprio corpo nello spazio anche senza il supporto della vista.
PROPRIOCEZIONE: capacità di percepire la posizione del proprio corpo nello spazio anche senza il supporto della vista.

I recettori che contribuiscono alla propriocezione e che vengono chiamati in causa dagli stimoli di facilitazione somministrati dal fisioterapista sono:

  •  I  recettori muscolari: gli organi tendinei del Golgi che si trovano nelle giunture muscolo-tendinee e che sono sensibili allo stiramento dei tendini, sia dovuto ad una mobilizzazione passiva  che ad una contrazione muscolare. I fusi neuromuscolari, sensibili allo stiramento del muscolo sia statico che dinamico.  
FUSI NEUROMUSCOLARI ED ORGANI TENDINEI DEL GOLGI. Disegni dell Arch. Silvia Farina.

·         recettori articolari, presenti nelle capsule articolari o nei legamenti, che comunicano il grado di angolazione in cui si trovano tra loro i diversi distretti corporei in un determinato momento.

·         recettori cutanei, sensibili al tatto e a qualsiasi deformazione della cute.

RECETTORI CUTANEI: corpuscoli di Meissner, corpuscoli di Pacini, corpuscoli di Ruffini, dischi di Merkel, terminazioni libere.
RECETTORI CUTANEI: corpuscoli di Meissner, corpuscoli di Pacini, corpuscoli di Ruffini, dischi di Merkel, terminazioni libere.

Questi recettori vengono stimolati:

·         Direttamente dal contatto delle mani del fisioterapista sulla pelle del paziente

·  Mediante la coaptazione (che vuol dire stimolare un’articolazione in compressione), estremamente utile per indurre una stabilità dell’arto.

·    Con l’applicazione  di una resistenza al movimento (la posizione delle mani del terapista è fondamentale, in quanto costituisce una vera e propria guida alla direzione del movimento, che si svolgerà nella direzione opposta a quella della resistenza applicata). La resistenza stimola il reclutamento di un maggior numero di unità motorie nel muscolo.

·   Con la somministrazione dello stimolo di stiramento, che provoca una breve contrazione muscolare riflessa. Il fisioterapista chiede simultaneamente al paziente di effettuare una contrazione volontaria  in direzione opposta a quella dello stimolo di stiramento. Questa contrazione beneficerà dell’iniziale contrazione riflessa (causata dall’eccitazione del fuso neuromuscolare  dovuta allo stiramento) che funziona come facilitazione.

·     Con  stimolazioni di tipo uditive/cognitivo-verbali (“comando verbale”). Si tratta di un’indicazione sintetica della modalità in cui il paziente deve eseguire l’esercizio. Il terapista prima  spiega al paziente in modo esaustivo l’esercizio. Durante lo svolgimento utilizza poi degli specifici comandi verbali, che indicano e stimolano una specifica modalità di esecuzione: “TIENI!”, “TIRA!”, “SPINGI!”.

·      Con stimolazioni visive (il paziente deve seguire con lo sguardo il movimento che l’arto esegue nello spazio).

 

Le diverse tecniche proposte dal metodo Kabat  mettono a disposizione specifiche modalità di intervento da utilizzare di volta in volta a seconda delle problematiche che occorre affrontare: migliorare la coordinazione, l’equilibrio, la stabilità, la resistenza, la forza muscolare, l’ampiezza del movimento, ridurre l’ipertono.

I principi neurofisiologici su cui si basano queste tecniche sono:

·         La “legge dell’induzione successiva” di Sherrington. La contrazione di un muscolo è maggiore quando preceduta da una forte contrazione del suo antagonista, se le due contrazioni si susseguono senza intervallo di tempo. Possiamo così migliorare, ad esempio, una movimento flessorio deficitario di un arto sfruttando la forza del movimento contrario, ovvero quello estensorio.

·    L’innervazione reciproca. Esistono dei circuiti inibitori a livello midollare che fanno sì che, quando un muscolo  (agonista) si contrae, il suo antagonista si rilascia3. Possiamo quindi ottenere il rilasciamento di un muscolo facendo contrarre il suo antagonista. Più forte sarà la contrazione dell’antagonista, maggiore sarà il rilasciamento ! I meccanismi di inibizione permettono di ottenere un rilasciamento della spasticità e rendono più facile l’esecuzione dell’atto al soggetto.

·         Irradiazione: “I muscoli forti vengono impiegati come starters per rinforzare l’azione dei muscoli deboli. (…) un muscolo che incontra una forte resistenza irradia i suoi fratelli meno vigorosi.4

·       Stiramento prolungato. “Stirando un muscolo spastico in modo continuo (ma senza brutalità), si ottiene una diminuzione progressiva o una eliminazione della spasticità. Gli organi del Golgi, stimolati dalla trazione continuata, producono segnali inibitori che, accumulandosi, “deprimono” la tensione muscolare. Appena applicata la trazione, i  fusi motori (conduzione rapida) stimolano la contrazione; il mantenimento della trazione permette agli organi del Golgi (conduzione lenta) di prendere il sopravvento, e il loro messaggio inibitore vince il messaggio facilitatore che l’ha preceduto.5”.

Si ringrazia di cuore Chiara Pascarelli per i bellissimi disegni.
Allungamento muscolare: Stimolo di stiramento.

·    La ripetizione del movimento. Ha come risultato, secondo Pavlov, la formazione di nuove integrazioni centrali6 stabili (corticalizzazione).

·     Sommazione spaziale degli stimoli: l’attivazione contemporanea di più sinapsi eccitatorie su uno stesso neurone porta al raggiungimento della soglia di corrente che consente la generazione di un potenziale d’azione da parte del neurone, e quindi la propagazione dello stimolo. Dal punto di vista dell’applicazione pratica questo per noi significa che somministrare più stimoli contemporaneamente ci permette di potenziare la risposta motoria aumentando il numero di motoneuroni coinvolti. A questo dobbiamo aggiungere che l’intensità dello stimolo aumenta la riposta muscolare, quindi anche una modulazione di questa intensità rientra tra gli strumenti a nostra disposizione per affinare l’efficacia degli esercizi proposti.

·       Sommazione temporale degli stimoli: stimolazioni ripetute aumentano la risposta motoria.

·  Tipologia di contrazione. Contrazioni isometriche,  isotoniche concentriche e isotoniche eccentriche: le prime sono contrazioni senza spostamento dei capi articolari, le seconde con avvicinamento e le ultime con allontanamento dei capi articolari. Il primo caso si verifica ad esempio quando manteniamo sollevato un oggetto pesante senza muoverlo. Il secondo quando solleviamo la busta della spesa da terra, il terzo quando la riposiamo a terra. Questi tre tipi di contrazioni

 

Nel 1987 un fisioterapista italiano, Giuseppe Monari, dopo aver seguito un corso di PNF in California, introdusse il metodo Kabat in Italia.

L’utilizzo di questo metodo lo indusse negli anni ad introdurre  delle proprie elaborazioni che hanno portato alla realizzazione di un approccio molto più complesso ed articolato rispetto al modello originale, tanto da giustificare e rendere necessario un cambiamento di nome per distinguere quelle che sono divenute nei fatti due differenti modalità di intervento, pur nel rispetto delle formulazioni iniziali che fanno capo a Kabat ed al suo gruppo di lavoro.

Ripercorreremo qui gli steps che hanno portato all’attuale RMP-Elaborazione del Concetto Kabat  assumendo come riferimento il racconto di questa evoluzione contenuto nell’ introduzione all’edizione del 2014 di “Riequilibrio Modulare Progressivo, Elaborazione del concetto Kabat7” di G. Monari.

Monari ci racconta di una prima evoluzione che risale agli anni 1974-1980 in cui venne identificata l’importanza  della biarticolarità e della monoarticolarità complessa.

Un muscolo biarticolare è un muscolo che tra i suoi capi articolari comprende due articolazioni e di conseguenza la sua azione può avere effetto su entrambe. Il retto femorale ad esempio può agire come flessore dell’anca e/o come estensore di ginocchio. Lavorare in biarticolarità per il retto femorale vuol dire agire su entrambe le articolazioni e quindi suddividere il suo lavoro su entrambi i suoi capi d’inserzione in percentuale adeguata a seconda della specifica necessità dell’atto motorio che si vuole svolgere. Monari chiama questa modalità di lavoro del muscolo “funzione intelligente”.

Un muscolo biarticolare è un muscolo che tra i suoi capi articolari comprende due articolazioni e di conseguenza la sua azione può avere effetto su entrambe.

Dovendo dividere la sua forza sia a monte che a valle rispetto alla propria lunghezza, il retto femorale costringe altri muscoli a venirgli in aiuto per svolgere al meglio entrambe le funzioni, di flessione dell’anca (chiedendo aiuto al muscolo psoas) e di estensione del ginocchio (chiedendo aiuto ai muscoli vasti) e questo coinvolgimento migliorerà nel tempo anche le prestazioni della muscolatura di supporto.

Il lavoro in biarticolarità costringe il retto a variare grandemente la propria lunghezza ed in questo modo migliora la propria elasticità. Se il retto viene esercitato separatamente soltanto come flessore d’anca o soltanto come estensore di ginocchio non è costretto a suddividere intelligentemente il proprio lavoro e questo richiede un coinvolgimento corticale (cerebrale) di livello qualitativo inferiore e determina un minore effetto di neuroplasticità. La differenza di livello di coinvolgimento corticale è stata dimostrata mediante color-doppler transcranico funzionale.  Inoltre lavorando solamente su una delle sue inserzioni non ha bisogno di particolari variazioni di lunghezza perché quella di cui ha bisogno la ottiene allungandosi a livello dell’altra inserzione. Nel lavoro in  biarticolarità il muscolo parte da un massimo accorciamento per arrivare ad un massimo allungamento.

Per monoarticolarità complessa si intende il fatto che un muscolo monoarticolare lavori simultaneamente in tutte e tre le sue funzioni: flesso-estensione, abduzione-adduzione, rotazioni. In questo modo potrà raggiungere lo stato di accorciamento massimale. Così come il lavoro in biarticolarità, anche l’utilizzo della monoarticolarità complessa comporta un maggior coinvolgimento corticale e quindi una maggior neuroplasticità.

Una seconda evoluzione del metodo avvenne poi tra il 1974 e il 1980, quando venne individuata nei passaggi posturali la chiave di lettura delle capacità di reclutamento del tronco nelle sue quattro funzioni di rotazione, flessione, estensione e inclinazioni. I passaggi posturali diventano quindi uno strumento di valutazione raffinato delle funzioni del tronco, ma vanno a costituire nel contempo anche una piattaforma di base su cui strutturare gli esercizi terapeutici da proporre per riabilitare quelle componenti del tronco che risultano deficitarie.

SIDE SITTING. Valuta la funzione inclinatoria del tronco.
ROTOLAMENTO. Valuta la funzione rotatoria del tronco.
LONG SITTING. Valuta la funzione flessoria del tronco.
CAVALIERE. Valuta la funzione estensoria del tronco.

Tra il 1978 e il 1986 ci fu l’introduzione delle progressioni piramidali per valutare ed intervenire specificamente sui problemi di equilibrio il quale, come è noto,  è dato dal rapporto tra l’ampiezza della base d’appoggio e l’altezza dal suolo del baricentro di un corpo.

Si ringrazia per il contributo artistico DAVIDE ROSATI. Atleta all'asse di equilibrio.

L’equilibrio, come ogni altra nostra abilità, è in realtà il frutto di un allenamento-apprendimento, più o meno consapevole (il bambino “si allena” fin dalla nascita e per più di un anno per conquistare l’equilibrio necessario alla stazione eretta), che comporta delle modificazioni a livello del nostro sistema nervoso centrale. Questo è possibile grazie alla  neuroplasticità del nostro sistema nervoso, ovvero la capacità di modificarsi in risposta agli stimoli.

 

 Lavorare sull’equilibrio vuol dire proporre al paziente degli esercizi impostati su una variazione mirata di questi due parametri che permetta gradualmente al paziente di raggiungere la posizione eretta (dove la base d’appoggio è minima e il baricentro alla massima altezza dal suolo) avendo colmato quelle carenze che ne rendevano impossibile il raggiungimento o che lo rendevano precario. Per progressione piramidale si intende tutta quella progressione di passaggi posturali che ci consentono di passare dalla posizione supina (massima base d’appoggio e minima altezza del baricentro) alla posizione eretta (oppure dalle posizione prona, o dalla posizione distesa in laterale). La valutazione di come il paziente affronta queste progressioni piramidali permette di intercettare il momento in cui iniziano a comparire delle carenze e quindi di individuare il livello di esercizi da proporre e consente anche di valutare se il paziente è in grado di raggiungere la posizione eretta e la deambulazione. Questo lavoro è stato fondamentale perché ha permesso di superare un modus operandi consolidato che era quello di esercitare direttamente la funzione carente per migliorarla: se il paziente cammina male facciamolo camminare e così esercitandolo migliorerà. Questi studi suggeriscono il fatto che probabilmente è più opportuno individuare le carenze a monte della funzione deficitaria e riabilitarle in modo specifico per  poter ristabilire appropriatamente la funzione (ad esempio la deambulazione).

Successivamente è stata evidenziata l’importanza dell’elasticità muscolare perché un muscolo possa esercitare al meglio il suo potere contrattile. Un muscolo che è andato incontro ad accorciamento è un muscolo che ha perso elasticità. Maggiore è la capacità di un muscolo di raggiungere il massimo allungamento e il massimo accorciamento e maggiore è la sua capacità contrattile. Inoltre un muscolo accorciato limita l’azione del suo antagonista perché agisce da freno (quando un muscolo si contrae il suo antagonista deve rilasciarsi ed allungarsi). L’accorciamento muscolare avrebbe inoltre un effetto sulla sensibilità dei fusi muscolari che aumenterebbe l’eccitabilità del riflesso di stiramento.

ALLUNGAMENTI MUSCOLARI

Da qui deriva il ruolo cardine che viene attribuito dall’RMP al raggiungimento e al  mantenimento di lunghezze muscolari fisiologiche in ogni ambito, ma in particolare in quello delle patologie neurologiche, dato che in questi pazienti se ne riscontra un’alterazione, che facilita l’instaurarsi di  schemi patologici  e può influire negativamente sul dolore alla spalla cui può spesso andare incontro in particolare il  paziente emiplegico: “..il terapeuta prima ancora di occuparsi del “rinforzo muscolare” deve preoccuparsi delle “lunghezze muscolari””. Quindi è stata approntata una modalità di valutazione delle lunghezze muscolari “reale”, che assicuri un controllo effettivo della posizione dei capi articolari durante la valutazione impedendo che si realizzino quelle vie di fuga del sistema che chiamiamo “compensi”.

Queste sono le principali innovazioni che vengono indicate nello scritto di G. Monari a cui qui faccio riferimento. Non sono le uniche ma ritengo che siano sufficienti a dare un’idea delle basi teoriche di questo metodo e delle sue potenzialità riabilitative.

 

 

 

 

 

 

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1Noel-Ducret F. Metodo di Kabat. Facilitazione neuromuscolare propriocettiva. Encycl Méd Chir (Editions Scientifiques et Médicales Elsevier SAS Paris), Medicina Riabilitativa, 26-060-C-10,2001, 18 p.

E. Viel. Il metodo kabat. Facilitazione neuromuscolare propriocettiva. Editore Marrapese. 1997.
G. Monari. Riequillibrio Modulare Progressivo. Elaborazione del concetto Kabat. Edi-ermes, 2004.

1aNG. Monari. Riequilibrio Modulare Progressivo. Elaborazione del concetto Kabat. Edi-ermes. 2013

2G. Monari. Riequillibrio Modulare Progressivo. Elaborazione del concetto Kabat. Edi-ermes, 2004.Viel E. Utilisation des techniques neuromuscolaires proprioceptives pour la reeducation et l’éducation du geste sportif. Schweiz Zeits Sport Medb 1985; :00-104

3 E. Viel. Il metodo Kabat. Facilitazione neuromuscolare propriocettiva. Editore Marrapese. Roma. 1997

Ibidem.

Ibidem pag 113

6Ibidem

7G. Monari. Riequilibrio Modulare Progressivo. Elaborazione del concetto Kabat. Edi-ermes. 2013